Joel/Ethan Coen – Inside Llewyn Davis

USA, 2013 (Mike Zoss Production/Scott Rudin Productions/Studio Canal)

insideLlewynDavis

Titolo Originale

Inside  Llewyn Davis
Lingua
Inglese
Durata 105 min.
Regia Joel / Ethan Coen
Sceneggiatura Joel / Ethan Coen
Fotografia Bruno Delbonnel
Produzione Joel / Ethan Coen , Scott Rudin
Interpreti Oscar Isaac,  Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, Garrett Hedlund

.

.

.

Si, avete ragione: “Inside Llewyn Davis” è un film noioso, terribilmente noioso. E aggiungo: volutamente noioso. Noioso come la quotidianità di un uomo, noioso come un canzone di revival folk alle nostre orecchie sature, noioso come la storia del Greenwich di quegli anni, in attesa, sulla soglia degli anni ’60.

L’ ennesimo sberleffo dei Coen questa volta è volto ad (anti)celebrare le gesta fallimentari dell’ (anti)eroe Dave Van Ronk e di un generazione di folk singer implosa, misconosciuta prima dell’avvento del messia Dylan. Ma non è un biopic o un documentario quello che i menestrelli Coen hanno voluto girare quanto più una storia, nel senso più tradizionale del termine, una narrazione folkloristica che condensa a partire dai fatti, il bagaglio collettivo culturale di una comunità, una generazione, un’epoca. In questo senso il film è più strettamente folk di ogni ballata cantata al suo interno e come ogni ballata tradizionale ruota tutto il suo racconto attorno ad una immagine. E’ sorprendente quindi ma fino a un certo punto, scartabellando tra le produzioni di Dave Van Ronk, notare la copertina dell’album “Inside Dave Van Ronk” (che fa il paio con il titolo del film seppur nella pessima traduzione italiana il gioco si perda, vedi nota *) datato 1964: Dave se ne sta, sguardo fulminante, appena fuori la soglia di una porta, un gatto fa capolino alla sua destra, sullo sfondo buio pesto. Potrebbe essere la locandina del film ma non lo è perché è qualcosa di più: l’evento da cui scaturisce tutto il film, l’immagine che, con ogni probabilità, ha inspirato e creato il film.

“Inside Llewyn Davis” è un film come solo i Coen sanno fare, semplice e genuino, che procede per dettagli minuziosi e apparentemente insignificanti accostati l’uno sull’altro, mentre la cinepresa si eclissa in favore di un cinema completamente interattivo che lascia lo spettatore realmente a tu per tu con il racconto e i suoi protagonisti ed è forse è per questo che i personaggi risultano sempre così sinceri, empatici, naturali. Naturalezza che è in realtà puro artificio del teatrino dei Coen, in cui ogni movimento scandito dalla cinepresa è freddamente misurato, ogni singola sequenza soddisfa un contenuto, un concetto.

Si, ho ragione: “Inside Llewyn Davis” è un film concettuale, terribilmente concettuale, dove il concetto è sciolto come zucchero nell’acqua, c’è ma non si sente.

Ad una prima lettura, la vita di Davis appare così ben poco avvincente che ci si domanda che diavolo di senso abbia filmare tutto questo. L’eterno ritorno delle gesta contingenti di questo loser, ottimo interprete ma outsider defilato, sensibile ma in parte ipocrita, sembra superfluo fino ad irritare il pubblico. Il suo personale “no direction home”, ovvero l’epica del cantante beat nomade e squattrinato, è in realtà una sequela di compromessi ben poco “illustri”, di battibecchi familiari, di espedienti per recuperare qualche spicciolo. Anche le decisioni più estreme e degne di nota finiscono per scadere in pietose burle. E’ questa la vita avvincente dei folk singer americani? Questo lo sfondo su cui si muovono le loro canzoni?

La domanda sorge spontanea perché, ad una seconda lettura, la vita di Davis ci appare come una, dieci, cento canzoni. Lo stesso intero film è strutturato e cadenzato come una canzone folk: il ritmo sincopato e ripetitivo, la trama semplice ed ingenua, la struttura che forma una specie di A-B-A (dove la B è il viaggio in macchina verso Chicago). Sono inoltre le stesse canzoni ad aprire e concludere il film, a legare le varie sequenze, a presentare i personaggi (quasi sempre un personaggio è introdotto o delineato da una canzone), a raccontare la storia. Accade perfino che interi dialoghi, soprattutto quelli più intimi, siano soppiantati da canzoni, più adatte delle parole a esprimere certi contenuti: vedi il dialogo interiore che si consuma tra il produttore Grossman e Davis durante il pezzo cantato da quest’ultimo, o quello tra Davis e Jean (Carey Mulligan) durante la sua esibizione in trio al Gaslight Cafè. In fin dei conti, il film non racconta altro che il testo di un classico folk: un uomo squattrinato se ne va dalla sua città per cercar fortuna, ma non trovandola, torna a casa. Un film che trasuda musica, quindi, come nella miglior tradizione americana da Altman a Scorsese e soprattutto il primo viene alla mente per la maestria nel saper lasciar parlare della musica, la musica stessa.

In effetti, ad una terza lettura, ci rendiamo conto che i Coen stanno tratteggiando, intorno alla silhouette di Davis, qualcosa di più della storia di un singolo uomo, come dicevamo, l’atmosfera culturale collettiva di un’ epoca. Lo fanno condensando nella fase centrale il blocco concettuale del film che diventa così massa critica, l’ epifania che ci regala la chiave di lettura del lungometraggio. Non è allora un caso il forte contrasto che abbiamo tra le due estremità del film e la sua fase intermedia: tanto concrete e contingenti le prime, tanto aliena e rarefatta l’atmosfera della seconda. Partiamo dallo snodo fondamentale di tutto il film: tre uomini (e non dimentichiamolo: un gatto di nome Ulisse) in viaggio in macchina verso Chicago. Durante una sosta notturna, uno dei tre, l’autista, di ispirazione più che vagamente beat, viene arrestato. L’altro il vecchio obeso narcolettico ed eroinomane continua a dormire. Davis decide di andarsene per la sua strada. E’ di fronte ad un bivio, a prima vista, banale: portare il gatto con sé o no? Davis decide di non portarlo con sé e sarà la scelta che forse, più di ogni altra, segnerà (metaforicamente) il suo destino. Proviamo a pensare che in quella macchina stesse viaggiando la cultura Americana di quegli anni: la generazione beat al tramonto, disillusa e ormai domata dalla società civile, incarnata dal “valletto”. Uno pseudo Elvis/jazzista, oramai tossico e impotente (fantastico cameo di un delirante John Goodman), lasciato solo al suo destino all’interno della macchina. Proviamo a pensare che quel gatto, non casualmente chiamato “Ulisse”, rappresenti l’esperienza del viaggio, tema tanto caro all’immaginario americano. Davis quindi il suo viaggio “americano” sembra compierlo, eppure è mutilato, la svolta non avviene, un po’ perché i tempi sono prematuri, un pò perché non è in grado di assurgere a guida spirituale per la sua generazione. Così i folk singer del Greenwich, tra revival nostalgici, banali filastrocche ma anche ballate intense, sembrano sentire il presagio di un cambiamento che non li vede protagonisti perché ancora troppo ancorati a vecchi stilemi. Il fantasma del passato, materialmente incarnato dal compagno morto suicida (i fasti dei gruppi folk vocali degli anni ’40/’50), atterrisce Davis, fino al punto da non permettergli di produrre nulla che abbia un valore aggiunto (egli canta per la maggiorparte solo vecchi cavalli di battaglia o rivisitazioni di ballate tradizionali). Nella sua battaglia contro il conformismo, Davis affonda ancor più nelle sabbie mobili dei temi e dei suoni della tradizione musicale folk. Giunti a questo punto non è più un caso che, all’audizione che potrebbe cambiare il suo destino musicale, egli canti una ballata tradizionale folk il cui testo è tratto da una storia del secolo XVI basato sulla morte della regina Jane (in barba all’arroganza con cui, egli stesso, qualche tempo prima, aveva trattato il professore appassionato di musica medioevale). Eppure, Davis, una seconda possibilità di cambiare ce l’ha: sulla strada del ritorno da Chicago, sotto una imponente tormenta di neve, si para il bivio per Akron, il paese dove risiede la sua ex fidanzata e suo figlio. In lontananza, lungo il bivio per Akron, luci e colori volteggiano tra il buio della notte. Le luci del successo? Le luci di una vita familiare stabile? Non lo sapremo mai, Davis continua dritto nella sua strada verso New York. Poco dopo investe un animale, lo ferisce, l’animale scappa: Davis ha di nuovo colpito la sua esperienza di viaggio, la sua voglia di cambiare e la lascia fuggire. La neve giunge a suggellare questo momento di stasi, la certificazione che Davis non cambierà mai (tornato a casa Gorfein, memore dell’incidente di qualche tempo prima, non permetterà al gatto-esperienza di uscire dalla porta).

Tornato a New York egli nota, disilluso, la locandina di un film della Disney, il viaggio-esperienza di tre animali. Qualcosa ci lascia pensare che Davis non abbia bisogno di entrare perché quel film l’ha già visto e vissuto. Davis ha vissuto una storia, ma non la Storia, non quella che conta. Torna alla sua vita modesta, parassita, comunque fiera.

La sua parabola lungo il film, iniziata con l’interpretazione funesta e metaforicamente suicida di “Hang me Oh Hang Me”(impiccatemi), si conclude allo stesso modo. Davis esce, senza gloria, dalla porta sul retro, lui e l’immobilismo del greenwich village di quegli anni, i battibecchi, la disillusione e l’anticonformismo fini a sé stessi, la ripetizione eterna della tradizione dei padri (da notare che Davis è quasi sempre riconosciuto come “figlio di”) sono giunti alla fine. Sul palco è salito un tizio con la voce nasale, quasi fastidiosa, che canta come vuole lui, senza nessuna enfasi, dei testi nuovi e affascinanti che si liberano dal giogo del passato. Noi lo vediamo, di sbieco, chino sulla chitarra come se i Coen ci stessero dicendo: “non è il momento di parlare di lui”. Sta cantando “Farewell” (addio) e, l’avete già capito, si chiama Bob Dylan.

E comunque avevate ragione: “Inside Llewyn Davis” è un film noioso, terribilmente noioso. Adoro la noia.

.

.

.

* come diceva il buon Nanni: le parole sono importanti. E allora che qualcuno mi spieghi, aldilà della perdita del gioco di parole di cui abbiamo parlato, qual è il nesso tra la parola inglese “inside” e la locuzione italiana “a proposito di”. La prima indica un moto verso l’interno, la seconda invece una associazione di idee. La traduzione di “a proposito di” in inglese è “about”, che letteralmente significa “attorno, intorno” che indica quindi un moto circolare oppure “circa, all’incirca” che non rappresenta esattamente il contenuto del film. Ora capisco che “Dentro Davis”, sarebbe stato un titolo un po’ ambiguo, per non parlare dei rimandi sessuali (e non si vuole pubblicizzare un film di Von Trier). Allora perché non lasciare il titolo originale? O sforzarsi di trovare una locuzione valida o almeno sensata?

 



1. Hang Me, Oh Hang me Tradizionale
3. Fare Thee Well (Dick’s song) Tradizionale
4. The last thing on my mind Tom Paxton
5. Five Hundred Miles Hedy West
6. Please Mr. Kennedy Timberlake, Mulligan, River
7. Green green rocky road Len Chandler, Robert Kaufman
8. The death of queen Jane Tradizionale
9. The rowing gambler Tradizionale
10. The shoals of herring Ewan MacCol
11. The auld triangle Dominic Behan
12. The storms are on the ocean A. P. Carter
13. Farewell Bob Dylan

Una risposta

3 03 2014
Joel/Ethan Coen – Inside Llewyn Davis | discoalgiorno

[…] Joel/Ethan Coen – Inside Llewyn Davis […]

Scrivi una risposta a Joel/Ethan Coen – Inside Llewyn Davis | discoalgiorno Cancella risposta